VercelliOggi
Il primo quotidiano online della provincia di Vercelli
Bassa Vercellese, Provincia di Vercelli

Motta de’ Conti cuore pulsante della Bassa Vercellese, ma anche luogo di un’osmosi tra territori, ricca di significati, capace di promuovere relazioni tra Vercellese e Monferrato Casalese, tra questi e la Lomellina.

Ne è stata testimonianza eloquente la presenza, oggi, domenica 29 giugno, in occasione del 166° anniversario del voto a San Giovanni Battista, la presenza di tanti Sindaci del Territorio.

Il nostro video, insieme alla gallery, offre tanti momenti della bella giornata di questa domenica, nel corso della quale non sono mancati anche spunti per una riflessione ad ampio raggio su questo momento di unione per tutta la comunità e, anzi, “le” comunità, come abbiamo visto.

Spunti di riflessione che ha proposto il Sindaco, Emanuela Quirci, nel proprio indirizzo di saluto pronunciato presso il monumento ai Caduti mottesi di tutte le guerre.

Anche di questo intervento – ripreso poi in quelli successivi del Consigliere Provinciale Pier Mauro Andorno e dell’Amministratore Parrocchiale Don Marco Giugno (integrale l’omelia nel corso della S.Messa) – il Sindaco ha suggerito una chiave di lettura particolarmente persuasiva di questa ricorrenza.

Da 166 anni Motta dei Conti onora il voto a San Giovanni Battista cui legarono se stessi e la comunità quei giovani soldati mottesi in pericolo sul campo di battaglia di San Martino, proprio il 24 giugno 1859.

Si combatteva la Seconda Guerra di Indipendenza e – come sempre – a combattere, soffrire e morire andavano, allora come oggi, i giovani.

Un gruppo di loro fu protagonista di un evento prodigioso: parve a quei ragazzi, stremati da fatiche e sofferenze, di udire, in lontananza, il suono della campanella che, già allora, tintinnava dalla chiesetta dedicata a San Giovanni.

Un segno che fu interpretato come presagio del ritorno a casa, incolumi.

Da allora, il voto di ricordare ogni anno, con tutto il paese e quelli vicini, San Giovanni Battista.

Proprio questa tradizione, che dice altresì di valori identitari vissuti nella speranza e nell’azione per la pace, la condivisione e la solidarietà, è – lo ricorda il Sindaco – capace di promuovere un senso di appartenenza a sua volta fattore utile a recuperare e promuovere una maggiore e costruttiva coesione sociale, ritrovando l’impegno alla ricerca del bene comune.

Ma ora lasciamo che parlino le immagini e, nel video, i protagonisti, accompagnati, nel corso della processione, dalla banda musicale di Occimiano, sempre unanimemente apprezzata.

 

Provincia di Vercelli, Regione Piemonte

(elisabetta acide) – La sera della sua elezione, in attesa trepidante di quelle parole del “nuovo Pontefice”, abbiamo  sentito  riecheggiare quell’annuncio del Vangelo lucano sulla bocca del Signore Risorto:

“La pace sia con voi!” (cfr Lc 24,36; Gv 20,19).

E la parola “pace”, in quelle righe pronunciate con voce ferma ma sensibilmente commossa, hanno riecheggiato per (se non ho contato male) 10 volte.

“Pace” e poi “giustizia” e “verità”.

Parole che abbiamo sentito ancora pronunciare in questi mesi dalla sua elezione e che ci riportano a quel Cenacolo: pace e comunione.

“Pace a voi”: con le mie mani e i miei piedi trafitti.

La pace dell’autore stesso della pace.

Nel recente discorso ai Vescovi della CEI del 17 giugno 2025, ancora Papa Leone XIV, ci “riporta” alla parola “pace” e lo fa con una sottolineatura particolare:

“Il Signore, infatti, ci invia al mondo a portare il suo stesso dono: “La pace sia con voi!”, e a diventarne artigiani nei luoghi della vita quotidiana. Penso alle parrocchie, ai quartieri, alle aree interne del Paese, alle periferie urbane ed esistenziali. Lì dove le relazioni umane e sociali si fanno difficili e il conflitto prende forma, magari in modo sottile, deve farsi visibile una Chiesa capace di riconciliazione”.

Un “invito” sollecito e particolare, non solo a rinnovare l’annuncio e la trasmissione della fede, ma a farlo in nome della pace.

Quella pace di cui il mondo ha bisogno, di cui la Chiesa ha bisogno, di cui le parrocchie, le Diocesi, hanno bisogno.

La pace “vera”, quella che viene dal Signore, quella che  è “richiesta” specifica del Vangelo e che l’apostolo Paolo esorta a vivere: “vivete in pace con tutti” (Rm 12,18).

Aggiunge san Paolo: “se possibile” (Rm12,18).

Sì la pace è “possibile”, ma occorre tutti essere “costruttori di pace”.

Pace “disarmata e disarmante” (primo saluto del santo Padre Papa Leone XIV 8 maggio 2025).

Pace che va “costruita” “disarmando” le nostre vite dall’odio, dal rancore, dall’invidia dalla gelosia, dall’indifferenza, dal risentimento, dal pregiudizio, dall’agressività, per “disarmare la terra”.

Pace che deve partire, come ricorda proprio il santo Padre, parlando in udienza ai giornalisti appena qualche giorno dopo la sua elezione: “Disarmiano le parole e contribuiremo a disarmare la Terra”.

Le parole sono la prima contro-arma per costruire “ponti di pace”. Spesso non ne abbiamo percezione ma sono proprio le “parole gridate”, le “parole offensive”, le “parole che infangano”, quelle che “serpeggiano con veleno” a “armare” i conflitti.

Abbiamo bisogno di “parole di pace” per la nostra vita, per quella “costruzione umile e perseverante” in una Chiesa sinodale, una Chiesa che cammina, una Chiesa che cerca sempre la pace, che cerca sempre la carità, che cerca sempre di essere vicino specialmente a coloro che soffrono(Papa Leone XIV nel già citato discorso dell’8 maggio dalla loggia di piazza s. Pietro).

Ciò che abbiamo veduto e udito, noi lo annunciamo anche a voi» (1Gv 1,3) cita papa Leone XVI parlando ai Vescovi Italiani: e ciò che abbiamo udito dalle parole di Cristo.

Cristo ci parla di pace.

E aggiunge il santo Padre:

La relazione con Cristo ci chiama a sviluppare un’attenzione pastorale sul tema della pace”.

Sono le parole di un “padre” per i suoi figli, quelle che nascono dal dolore per i conflitti, quelle che nascono dalla constatazione della difficoltà di seminare “piccoli gesti di pace”. E questo invito, che si accompagna ai suoi appelli accorati, alle sue azioni quotidiane, alle sue preghiere, alle sue particolari attenzioni ai numerosi e drammatici conflitti delle “zone di guerra”, sono per noi.

Per noi che “invochiamo” la pace ma che quotidianamente viviamo i piccoli ma laceranti conflitti anche dentro le nostre comunità.

Pace per una “Chiesa generativa”, per una Chiesa che sia portatrice di Vangelo in ogni ambiente, per una Chiesa che sia espressione e azione di quella fedeltà al Vangelo,  che è conversione dei cuori, che è giustizia, che è misericordia, che è pace.

Ogni comunità diventi una “casa della pace”, dove si impara a disinnescare l’ostilità attraverso il dialogo, dove si pratica la giustizia e si custodisce il perdono. La pace non è un’utopia spirituale: è una via umile, fatta di gesti quotidiani, che intreccia pazienza e coraggio, ascolto e azione. E che chiede oggi, più che mai, la nostra presenza vigile e generativa.” (Papa Leone XIV ai Vescovi CEI).

Una Chiesa allora, “generativa” che si apre alla pace, che la annuncia e la “pratica”; una Chiesa che “parla” di pace con la vita, che porta il Vangelo di pace, di dialogo, di persona e della sua dignità, per essere “segno del Regno di Dio”.

Ascolto delle persone, della vita, costruzione di intrecci e di relazioni, vita di relazioni fraterne e di perdono… ecco la “pace possibile”, la “pace perseguibile”, una “pace costruibile”…

Una “pace costruita” con la vita di tutti, tutti i giorni.

Per essere “artigiani di pace”.

Papa Leone XIV riprende ed utilizza  una espressione di Papa Francesco: “siate artigiani di pace” (Discorso  10 ottobre 2022 ai giovani pellegrini in Belgio), per costruire dentro e intorno a noi, bellezza, amore,fraternità, solidarietà… pace.

Possiamo diventare “artigiani di pace” solo se sapremo proporre, non imporre, se sapremo vivere la Verità di Cristo, oltre le menzogne, oltre la “liquidità” accomodante, oltre lo stare “dietro alla siepe” e non allargare lo sguardo…

Essere “artigiani di pace” nelle comunità, nella Chiesa, nelle Diocesi, nelle parrocchie, è essere “persone di pace”, “cristiani di pace”, promotori di giustizia, di perdono, per “abitare” i territori inesplorati della pace possibile, della pace quotidiana, della presenza che cura, della attenzione che guarda, della responsabilità che mi fa “chinare” sugli altri.

Essere artigiani di pace è possibile se saremo Chiesa che promuove l’impegno personale, il cammino di comunione, l’ Amore possibile.

Essere artigiani di pace è possibile se saremo cristiani che non si limitano a “indignarsi” per i conflitti, per le guerre, per i soprusi, ma che costruiscono ponti e reti, dialoghi e azioni, che lavorano nel quotidiano della vita per intessere trame di pace sui valori della solidarietà, del dialogo, della giustizia, della dignità…

Essere artigiani di pace, è avere il coraggio di Papa Leone XIV con quelle 10 volte della parola “pace”, non una successione di vocali e consonanti, ma una “missione” di vita cristiana, di Parola di Cristo che fa “gioire” alla visione del Signore.

Essere artigiani di pace è vivere la Presenza di Cristo nella comunità, vivere l’Eucaristia, generatrice di “vita piena”, di “vita di Cristo”, di “presenza di Dio”.

Riflettiamo sulle esortazioni del Santo Padre: “Restate uniti e non difendetevi dalle provocazioni dello Spirito. La sinodalità diventi mentalità, nel cuore, nei processi decisionali e nei modi di agirenon abbiate timore di scelte coraggiose…il Vangelo che siamo inviati a portare, perché è di questo che tutti, noi per primi, abbiamo bisogno per vivere bene ed essere felici”.

Le “scelte coraggiose”, quelle che ci fanno “essere” Chiesa di pace, ambasciatori di pace, persone di pace.

Mettiamoci insieme per cercare soluzioni alla guerra è l’appello accorato del Santo Padre e all’Angelus di domenica 15 giugno invita: “Continuiamo a pregare per la pace in Medio Oriente, in Ucraina e nel mondo intero”.

Pace cercata e realizzata.

Pace perseguita e praticata.

Ed ancora, parlando di pace, il Santo Padre mette in guardia dalle insidie della “pace apparente”:

una semplice tregua, un momento di riposo tra una contesa e l’altra, poiché, per quanto ci si sforzi, le tensioni sono sempre presenti(Discorso al Corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, 16 maggio 2025).

Una riflessione importante, perché la convivenza umana, in qualsiasi ambito, sia generativa di umanità, di quella pace che non è “assenza di guerra” (che sarebbe già importante), ma che è scelta precisa e decisa di dialogo, di fraternità, di ascolto, di parole sussurrate non gridate, ma interiorizzate e costruite perché possano diventare parole di pace.

“Il Regno di Dio sarà giustizia, pace ed allegria, e saranno questi i frutti dello Spirito Santo” ( cfr.Rm 14,17) e

“Dio sarà tutto in tutti” (cfr.1Cor 15,28), con queste certezze, seminiamo la pace, quella pace cantata dagli angeli a  Betlemme in quella notte: “Pace in terra agli uomini che egli ama”, quella  pace che è il di Gesù ai discepoli: “Vi lascio la pace, vi do la mia pace(cfr. Gv 14,27).

Diventiamo “profeti sapienti di pace”, per la “missione” che ci  ha “consegnato” Gesù su quel monte o in quel piano: “Beati gli operatori di pace”. Beati coloro che avranno “volto di pace”, il cui volto e la cui vita riflette la pace di Cristo.

Diventiamo  “persone di pace”, non nella tranquilla serenità della vita, ma nello “shalom” della vita di giustizia e verità.

Diventiamo operatori laboriosi della pace di Cristo, intraprendenti creativi “pacificatori” del mondo, perché con la sua Pace, Cristo ci ha reso figli, ci ha reso fratelli, ci ha reso “artigiani” di comunione.

Egli è venuto ad annunziare pace” (Col 2,17), ci ha donato il suo Spirito che ci i-Spira, “opere di pace”, suscita le nostre “costruzioni di pace”.

Raccogliamo l’invito di Papa Leone XIV: “abitiamo” la pace dei figli e dei fratelli, la pace che ci dona la Grazia, la pace che ci fa percorrere strade straordinarie di giustizia, di amore, di perdono.

La “pace” sia il nostro “programma” di vita: una pace di responsabilità personale e comunitaria, una pace fatta di sollecitudine e prossimità, una pace fatta di annuncio e di conversione continua, di perdono e di pazienza, di cammino e di reciprocità.

Viviamo la pace come “dono”, “dono di Cristo”, dono che chiede di essere vissuto e diffuso con impegno e disponibilità.

(L’immagine di apertura è tratta da Vatican Media)

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Valsesia e Valsessera

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Posted in Cronaca

Fondation Bethléem a Mouda (Camerun) gestita dai Silenziosi Operai della Croce – Tanti hanno ascoltato la vivida testimonianza di Don Thierry

Cigliano e Borgo d'Ale

(testo di renato scotti – immagini di mirella nigra, lorenzo bisco e gabriele Bisco) – «L’elemosina, assieme alla preghiera e al digiuno – non solo dal cibo, ma anche come rinuncia a qualcosa per sé stessi per farne dono al prossimo – sono gli ingredienti fondamentali della Quaresima».

Lo ha ricordato il parroco don Alberto Carlevato alle cene povere quaresimale di beneficenza organizzate, anche quest’anno, nelle parrocchie di Villareggia, Mazzè e Tonengo, a lui affidate: tre cene povere pensate principalmente – ma non solo – per altrettanti destinatari: i bambini e i ragazzi del catechismo con le loro famiglie (14 marzo); le associazioni, i cori e i collaboratori parrocchiali (28 marzo); infine gli animatori, i giovani e i coscritti (3 aprile).

L’invito a partecipare a questi momenti comunitari è stato accolto da un numero davvero grande di persone, evidentemente desiderose non solo di trascorrere un momento di condivisione in un clima di sobria allegria, ma di contribuire anche e soprattutto al raggiungimento dell’obiettivo dell’iniziativa: raccogliere fondi per la missione Fondation Bethléem a Mouda (Camerun) gestita dai Silenziosi Operai della Croce.

A questo scopo hanno contribuito ottimamente le lotterie di beneficenza svolte al termine di ogni cena, magistralmente animate da don Alberto che ha saputo renderle, col suo usuale talento, coinvolgenti e divertenti.

L’iniziativa delle cene povere si è così dimostrata ancora una volta adeguata al senso del tempo quaresimale e l’importo raccolto sarà senza dubbio di grande utilità per le opere della Fondation Bethléem.

Dunque, un ringraziamento di cuore a tutti coloro che a vario titolo hanno contribuito alla riuscita dell’iniziativa: ai partecipanti, agli organizzatori, ai cuochi, alle persone che con gentilezza ed efficienza hanno servito ai tavoli, nonché ai “Silenziosi Operai della Croce” di Moncrivello, che hanno ospitato le prime due cene, e ai proprietari e al personale del “Bar Trattoria Nazionale” di Villareggia dove si è svolta la terza cena.

La Fondation Bethléem a Mouda

Nel corso delle tre serate è stato proiettato un video realizzato presso la missione di Mouda.

In esso sorella Rosa, coordinatrice della Fondation e membro dei Silenziosi Operai della Croce, racconta in forma di intervista l’opera della Fondazione, facendo da sfondo alle immagini che sullo schermo mostrano la vita e le attività nella missione, musicalmente accompagnate dai balli e dai canti gioiosi della Chorale Voix Bethléem de Mouda.

Fondata nel 1997 da padre Danilo Fenaroli del Pontificio Istituto per le Missioni Estere (PIME), la missione Betlemme è gestita dal 2002 in collaborazione con l’Associazione Internazionale dei Silenziosi Operai della Croce (SODC).

Sulle orme del Beato mons. Luigi Novarese, fondatore dei SODC, la Fondation Bethléem intende «ridare all’uomo la sua dignità, qualunque sia il suo stato, anche in condizione di malattia».

Sono infatti accolte ed aiutate persone in condizione di povertà, sane oppure affette da handicap fisici e/o psichici, a prescindere dal loro credo religioso.

Molti sono i bambini, attualmente una cinquantina, con età variabile da poche settimane a due anni e mezzo, orfani o abbandonati dalle famiglie: fra le modalità di aiuto è possibile anche l’adozione a distanza.

La missione offre percorsi di scolarizzazione e corsi di avviamento professionali per aiutare i ragazzi ad inserirsi nel mondo del lavoro.

I corsi mirano a fornire competenze nell’ambito della falegnameria, della lavorazione del ferro, della pittura e della scultura, della sartoria.

Su quest’ultima, in particolare, sorella Rosa si sofferma e sottolinea che «nel momento in cui le ragazze riescono a comprare una macchina da cucire, possono iniziare da subito a lavorare e a guadagnare per sostenere le proprie famiglie».

Pur coronata da evidenti successi, la strada è sempre in salita: sia per problemi di carattere economico, sia per una certa mancanza di attitudine, nel tessuto sociale, a motivare, spronare i ragazzi affinché proseguano il percorso intrapreso nella missione.

Molti ragazzi non riescono a trovare lavoro e ritornano alla Fondation: è un problema che si è pensato di risolvere istituendo borse di studio per consentire la prosecuzione degli studi all’università, magari in Italia, ma per attuare questo progetto occorrono ingenti risorse economiche.

Alla missione di Mouda si crede fermamente nella Provvidenza.

E la Provvidenza si manifesta non solo nelle persone che offrono aiuto economico, ma anche in coloro che offrono aiuto professionale: ad esempio, i fisioterapisti della struttura Virgo Potens di Moncrivello, gestita dai SODC, che periodicamente si recano a Mouda per tenere corsi di aggiornamento ai fisioterapisti locali che giungono anche dall’estremo nord della regione.

Sul finale della video-presentazione sorella Rosa ringrazia tutti i benefattori e chiede che non manchino preghiere per la missione e per chi vi opera, «perché la preghiera aiuta a comprendere le reali necessità del fratello accanto a noi».

Le testimonianze dei medici volontari

Presenti alle prime due serate alcuni professionisti sanitari che hanno svolto – per la prima volta o già da alcuni anni – attività di volontariato per alcuni mesi presso la Fondation Bethléem e che con i presenti hanno condiviso questa loro esperienza.

Le condizioni sociali a Mouda, come in buona parte del Camerun, sono di estrema povertà, con pesanti ricadute anche in ambito sanitario.

Molti bambini e ragazzi sono affetti da malformazioni che sarebbero certamente guaribili se curate in tempo e con mezzi adeguati.

Molte patologie sarebbero curabili e risolvibili con antibiotici che, però, scarseggiano.

Per una “banale” otite non curata molti bambini restano sordi. Molti bambini restano orfani perché le loro mamme muoiono per complicanze durante il parto o successive.

Nei bambini sono molto numerosi anche gli esiti di ustione dovuti alla caduta accidentale nei bracieri che sovente sono accesi nelle case.

L’uso frequente di abiti sintetici, facilmente infiammabili, contribuisce inoltre a causare ustioni molto estese.

Per ragioni in buona parte ancora sconosciute, sono molto diffuse le artrosi alla testa del femore che insorgono in persone giovani, addirittura già verso i 25-30 anni.

Molti i piedi torti dovuti all’assenza di diagnosi precoce.

Gli interventi chirurgici sono svolti nell’ospedale di Maroua, a circa 30km da Mouda.

Le sale operatorie sono precarie, prive di strumentazione per l’attuazione di un piano d’emergenza nel caso di imprevisti durante un intervento chirurgico.

Le figure professionali sanitarie determinanti a Mouda sono principalmente quella dell’ortopedico e del fisioterapista.

Ma c’è necessità anche di ginecologi, nonostante in questo ambito l’attività sia per lo più ambulatoriale: c’è una richiesta crescente di visite e di cure per l’infertilità che, per convinzioni radicate nella cultura locale, si tende erroneamente a credere riguardi solo le donne, mentre invece non è affatto così.

Difficoltà e precarietà non sono state però l’unico elemento comune nelle vicende narrate dai medici: tutti hanno testimoniato di come la Fondation Bethléem sia un luogo che dà dignità alle persone.

Si resta stupefatti nel vedere bambini sani e sordomuti, a scuola, nella stessa classe, comunicare con il linguaggio dei segni fra loro e con l’insegnante.

Si percepisce un’umanità alla quale “da questa parte del mondo” non siamo più abituati: chi ha di più (e il “di più” è spesso molto poco) spontaneamente aiuta chi è maggiormente in difficoltà.

E questo aspetto – lo osservava in un suo scritto anche il fondatore, padre Danilo Fenaroli – è in felice contrasto con la mentalità comune che, invece, tende marginalizzare i più vulnerabili.

La testimonianza di don Thierry

Al termine della terza serata, rivolta principalmente agli animatori, ai giovani e ai coscritti, don Thierry Aime Tomo – sacerdote dei Silenziosi Operai della Croce, classe 1984, attualmente in servizio presso il centro di Moncrivello e nella parrocchia di Borgo d’Ale – ha consegnato ai ragazzi e ai bambini un’esortazione: nel momento delle grandi scelte non ritenersi “autosufficienti”, ma confrontarsi sempre – e, se necessario, “scontrarsi” – almeno con i propri genitori, anche quando non condividono il cammino che si intende intraprendere, affinché le scelte siano davvero ponderate e non affidata al caso o dettate da ragionamenti superficiali o di comodo.

«Ho studiato in Camerun e da bambino volevo fare il calciatore», ma spesso, confessa don Thierry, «saltavo scuola, senza dirlo a miei genitori, e andavo a giocare a calcio». Venutolo a sapere e avendo tentato invano di convincerlo a frequentare regolarmente la scuola, i genitori di don Thierry ritengono che l’unica soluzione sia mandarlo a studiare in seminario, «non perché mi facessi prete, ma perché in questo modo sarei stato costretto a studiare».

In seminario don Thierry non gioca a calcio, ma studia, partecipa alla Messa quotidiana, presta servizio come chierichetto… e poco alla volta sente crescere dentro di sé la vocazione al sacerdozio.

Decide di intraprendere questa strada, ma compie questa scelta da solo, senza consultarsi con i genitori, mettendoli al corrente solo dopo essere divenuto seminarista.

Seguono anni difficili: i genitori di don Thierry, ritenendo che il figlio li abbia esclusi dalla sua vita, si dimostrano ostili, non vanno a trovarlo in seminario, stentano a parlargli quando, due o tre volte l’anno, torna a casa per le feste.

Don Thierry si sente in colpa e nascono in lui dubbi sulla bontà della vocazione sacerdotale.

Il rapporto con i genitori si riallaccia solo quando mamma, papà e don Thierry riescono finalmente, e non senza sforzo di volontà, a parlarsi, a comprendersi e a perdonarsi.

«Parlate sempre con i vostri genitori», esorta don Thierry rivolgendosi ai ragazzi, «non abbiate paura a parlate con loro di tutto».

Sappiamo bene che in una delle fasi più delicate dell’esistenza – quando si attraversa quella “terra di mezzo” nella quale non si è più bambini ma non si è ancora pienamente adulti, quando il cuore che trabocca di desiderio per l’Infinito quasi si schianta contro la finitezza dell’umano – il rapporto genitori-figli spesso si complica, sembra quasi che gli uni e gli altri non possano capirsi o addirittura non vogliano farlo.

Beninteso, questo può accadere per le più svariate ragioni anche in altri momenti dell’esisenza.

Proprio per questo don Thierry insiste ed esorta nuovamente i ragazzi, ma anche i genitori presenti in sala:

«parlate sempre con i vostri genitori, sforzatevi di capirli; ma anche voi, papà e mamme, sforzatevi di capire i vostri figli e parlate con loro. Non riducetevi a mandarvi messaggi sul telefonino da una stanza all’altra della casa!»

Infine, rifacendosi alla video-testimonianza di sorella Rosa, don Thierry invita a prendere realmente consapevolezza del fatto che vi sono ancora regioni del mondo nelle quali una famiglia periodicamente resta per 2-3 giorni, o anche più, senza cibo. Qualcosa che a cui noi possiamo credere, un poco immaginare, ma che noi, qui, non sperimentiamo.

Un gesto concreto di aiuto, magari piccolo per noi, è un aiuto grande in luoghi come Mouda e può contribuire a salvare una vita.

Ma la carità, quella autentica e che dà frutto, quella che serve l’uomo nella sua interezza «per ridare all’uomo la sua dignità, qualunque sia il suo stato» (prendendo a prestito le parole di sorella Rosa), non nasce che dalla Fede e dalla Speranza intese come virtù teologali, infuse nell’uomo dalla grazia del Dio trinitario, che vivificano le virtù cardinali rendendole riverbero verso il prossimo dell’amore che Dio ha per ogni essere umano.

Posted in Pagine di Fede, Vercelli Oggi

E’ bello riproporre qui un articolo ripreso dal nostro archivio, che fa toccare con mano meglio di mille parole un’idea che non deve essere esiliata.

Senza nessun cedimento a nostalgie, né idealizzazioni oniriche di tempi che furono: semplicemente richiamando la testimonianza vera di persone che furono punti di riferimento.

L’articolo – oltre i contenuti – parla di due personalità della Sinistra politica, dirigenti del Partito Comunista Italiano, Piero Besate ed Irmo Sassone, che abbiamo avuto il privilegio di conoscere e – pur nella grande distanza anagrafica – ascoltare, dialogando con loro in qualche occasione.

In particolare di Piero Besate dirà l’atteso incontro in programma il prossimo 28 marzo.

La testimonianza di chi scrive è quella di un ragazzo che si affacciava alla politica, da posizioni differenti e – dati i tempi – non facilmente conciliabili e, anzi, inevitabilmente condizionate da contesti sia internazionali, sia nazionali, entro i quali, tuttavia, la radicalizzazione delle posizioni non riusciva a negare, né sopprimere, le emergenti esigenze di un “confronto” difficile, quanto ineludibile e che solo alcuni anni dopo avrebbe visto nelle figure di Enrico Berlinguer e di Aldo Moro interpreti idonei a rappresentarne le ragioni, ad indicarne i percorsi lungo un crinale stretto, ma possibile.

Di quei giorni mi piace ricordare qualcosa che – almeno, spero – credo abbia portato un grande contributo alla mia crescita “pre-politica”, cioè la capacità di queste due eminenti personalità di dialogare nel rispetto delle opinioni dell’altro, quasi sollecitando l’espressione di quelle opinioni, anche se l’ “altro” era soltanto un ragazzo: mai un cedimento demagogico, mai il ricorso a dogmi (pur nei tempi in cui si sentiva spesso dire delle “due Chiese”), mai la demonizzazione dell’avversario quando il confronto toccava i punti maggiormente difficili da conciliare.

Così volentieri ci apprestiamo ad ascoltare queste testimonianze sulla vita e l’opera di Piero Besate, “un comunista”, nella speranza che possano ritrovare ascolto, dilatarsi in echi e risonanze capaci di  ripristinarne la fecondità.

***

“Un arcobaleno lungo tutto il cielo”.
Storia di Piero Besate, comunista italiano,
uomo del popolo
 

Fondazione Culturale Rinascita – Vercelli E.T.S. e Istorbive presentano il volume

“Un arcobaleno lungo tutto il cielo”. Storia di Piero Besate, comunista italiano, uomo del popolo,

realizzato con il coordinamento scientifico di Bruno Ferrarotti e contenente saggi di Ezio RobottiBruno FerrarottiSergio Negri e Lina Besate.

L’iniziativa si terrà venerdì 28 marzo 2025, a Vercelli, nella Sala Soms in via Francesco Borgogna 34, alle ore 17. Interverrà, insieme agli autori dei saggi, l’onorevole Federico Fornaro.
L’ingresso è libero.

Il libro ha per titolo un verso della canzone popolare “Arcobaleno di pace”, scritta da Piero Besate e cantata dalle mondariso vercellesi durante il lavoro in risaia. Un titolo poetico, simbolico, legato a una significativa storia di battaglie politiche e sindacali che costituiscono il contesto locale nel quale vive e opera il compagno Piero Besate, bracciante, sindacalista, dirigente politico e amministratore pubblico.
Piero Besate è stato un uomo del suo tempo. Quanto scritto da Ezio Robotti nel primo capitolo e gli approfondimenti contenuti nei saggi, storicamente documentati, di Sergio Negri e Bruno Ferrarotti, curati da quest’ultimo, ci consentono di delineare con precisione il contesto storico, politico e sociale in cui Besate ha operato nel secondo dopoguerra, come dirigente del movimento sindacale e del Partito comunista italiano, e come amministratore locale e regionale. E dal volume emerge anche l’uomo Besate, il Pierino degli amici e dei compagni, quello intriso di cultura, l’amante della poesia, di quel romanticismo della speranza, così ben raccontato e cantato nei suoi scritti e nelle sue canzoni. Sentimenti questi ben custoditi ed espressi, a chiusura del libro, dalla figlia Lina nello scritto “Il canto di Rosa”.