A sinistra, 1957, prima S.Messa al Belvedere - A destra, con i ragazzi ruandesi
L’altra notte (tra 13 e 14 novembre),
verso l’1,30, all’ospedale di Vercelli, si è spento padre Giuseppe Minghetti
che, negli anni ‘90, era diventato il sacerdote simbolo (alla Bertagnetta)
dell’accoglienza che la città aveva riservato ai piccoli ospiti ruandesi in
fuga da una guerra etnica spietata: aveva 87 anni.
Era stato ordinato
sacerdote nel 1957 da monsignor Imberti e
ultimamente era canonico in Duomo, dopo aver svolto, per decenni, un’intensa,
encomiabile attività missionaria e umanitaria nei Paesi più complicati del
mondo, prima in Africa (nel Burundi e appunto in Ruanda) e poi in Bolivia.
Adesso viveva alla Casa del clero ed
era spesso in Duomo, con il parroco, monsignor Pino Cavallone, a confessare.
La salma sarà esposta (ma il feretro ovviamente sarà chiuso) in Duomo dalle 11,30
alle 18 di lunedì, mentre i funerali, solo per 30 persone, secondo le nuove
disposizioni anti contagio dell’arcivescovo, saranno celebrati martedì alle
9,30, sempre in cattedrale.
Pochi giorni dopo l’addio
a don Osvaldo Carlino, la Chiesa vercellese
perde un altro sacerdote amatissimo e soprattutto coraggioso: un simbolo per la
nostra città.
Nessuno a Vercelli potrà mai
dimenticare quando, nel 1994, dopo essere stato per vent’anni a fianco degli
“ultimi” in Ruanda, decise di portare in Italia – collaborando con Mariapia
Fanfani della Croce Rossa - salvandoli da sicura morte, ben 157 bambini sia
Hutu che Tutsi: 57 di loro vennero ospitati a Vercelli. Al suo fianco un’intera
città ed in particolare, oltre al sindaco Gabriele Bagnasco, il
magistrato Domenico Attimonelli e il compianto avvocato Donatella
Pallavicini.
Due anni fa, su proposta di un gruppo
di studenti del Liceo Scientifico (Andrea Corsico, Andrea Maggi, Alessandro
Baltaro, Gabriele Concina e Matteo Rampazzo, che gli dedicarono una ricerca
ad hoc), padre Minghetti, proprio per la sua straordinaria, decennale opera umanitaria
a favore degli “ultimi”, padre Minghetti fu inserito dal Comune (amministrazione
Forte) nel Giardino dei Giusti – inaugurato da Piero Angela
nel 2016 – del Parco Iqbal Masih, accanto ad altri personaggi, vercellesi e
nazionali, come don Luigi Longhi e Gino Bartali e Carlo Angela, il padre
di Piero.
Nel 1983, quando era ancora
missionario, padre Minghetti aveva ricevuto il riconoscimento di “Vercellese
dell’anno” propri per la sua “opera a favore dei diseredati”.
E, nel ‘96, con i suoi ragazzi che
stavano lasciando Vercelli per tornare in Africa, la “cittadinanza onoraria”.
Padre Minghetti s’era ammalato – non
di Covid – all’inizio di settembre, accusando gravi problemi respiratori e,
dopo un primo ricovero al “Sant’Andrea”, che sembrava aver dato buoni frutti,
era tornato alla Casa del Clero e poi era andato a riabilitarsi al Trompone.
Negli ultimi giorni le sue condizioni
sono peggiorate, il tampone è purtroppo risultato positivo, ed è stato
necessario il ricovero negli Infettivi, dove è stato amorevolmente assistito da
tutto il personale sino alla fine, stanotte.
In questo servizio una rara immagine –
messa a disposizione daFlavio Ardissone - in cui si vede Padre Minghetti in
occasione della sua prima Messa al Belvedere, nel 1957.
Di seguito, il bel ricordo dei tempi
in cui Vercelli ospitò i giovani ruandesi, preparato da Enrico Demaria
per TgVercelli.
Padre Minghetti e quella Vercelli meravigliosa
che avrebbe meritato il Nobel per la Pace
(di Enrico Demaria)
Caro Padre Minghetti,
grazie a lei fra la primavera del 1994
e i primi mesi del ‘96, Vercelli visse un’avventura incredibile per la quale
l’Unicif avrebbe dovuto insignirla di una medaglia speciale al merito, da
ostentare con orgoglio nel suo labaro.
Purtroppo non l’ha fatto, ma la nostra
città se lo sarebbe meritato (di questi tempi la si sarebbe potuta proporre
anche per il Nobel per la Pace).
Ricordo bene quei mesi perché pure la
“Fondazione italiana Specchio dei Tempi”, che allora anche io – come capo
servizio della redazione provinciale de La Stampa – ed i miei colleghi del
giornale rappresentavamo, si mise subito a disposizione dei 57 piccoli profughi
che lei riuscì a portare a Vercelli, salvandoli da una delle più atroci guerre
civili nella storia del nostro vecchio mondo: una guerra scandita a colpi di
uccisioni e di mutilazioni.
“Specchio dei Tempi” aprì una
sottoscrizione, per favorire il soggiorno di quei poveri bambini e ragazzi, che
toccò una cifra enorme; ma fu l’intera città a mobilitarsi, sindaco in testa
(era Gabriele Bagnasco).
Fu trovata una collocazione decorosa
nell’ex ospedale pneumologico “La Bertagnetta”, che i piccoli ruandesi
chiamavano “Inzu”, cioè casa nella loro lingua e che era puntualmente affollata
di persone che andavano a trovarli, portando loro di tutto: giocattoli, dolci
(quanti “bicciolani”), patatine, bibite.
Le scolaresche accorrevano a frotte,
issando cartelli: “State qui con noi”.
Ed io ho un particolare ricordo della
Cooperativa “L’Arciere”, allora presieduta da Paolo Ambrosini, che fece
davvero di tutto per fare sentire amati e accolti fraternamente quei giovani,
tanti dei quali mutilati nel fisico e nell’anima. L’immagine del vice
presidente dell’”Arciere” Claudio Berlini che fa giocare alcuni dei
giovani ruandesi con gli aquiloni mi resterà per sempre impressa come un
ricordo tra i più cari della mia intera vita di giornalista.
E poi venne il giorno in cui la
fazione politica allora al comando in Ruanda pretese che i ragazzi tornassero
perché la situazione – si diceva dall’Africa – si era normalizzata.
“Non si è normalizzate per niente”,
replicò lei con durezza, tutore dei 57 ospiti, appoggiato dal sindaco Bagnasco,
dal magistrato Domenico Attimonelli e da una giovane avvocatessa, che
avremmo purtroppo pianto solo dieci anni dopo, Donatella Pallavicini.
Partirono lettere dettagliate al
premier Lamberto Dini, al Presidente Scalfaro e alla Ue:
“I ragazzi non si muovono di qui, ne va
della loro vita”.
Una marea di studenti, una mattina che
ancora ricordo con emozione, venne a sostenere la protesta:
“Non vi rimanderemo là, se non quando
potrete farlo in piena sicurezza”.
Perché era ciò che era stato garantito
all’allora ministro Guidi (primo governo Berlusconi) quando i giovani
africani arrivarono qui il 30 luglio 1994.
E dunque i suo ragazzi rimasero ancora
un bel po’, anche se furono costretti a trasferirsi nelle ex scuole elementari
del Concordia (dove oggi c’è il Comando dei Vigili Urbani) perché, nottetempo,
arrivò un incredibile diktat dell’allora Usl che diceva:
“La Bertagnetta deve
essere ristrutturata in fretta perché la sanità vercellese ne ha bisogno” (sono passati 25 anni da quell’”in fretta” e l’ex pneumologico
è un rudere inutilizzabile).
Continuarono a stare qui.
La famiglia Givogre apriva gratis i suoi cinema; l’allora gestore del
Centro Nuoto Guido Gabotto li ospitava in piscina offriva la merenda;
il giostraio Devinci Caroselli e i suoi colleghi regalavano giri
omaggio nel parco divertimenti all’ex cascina Borghetto; le gelaterie non facevano
pagare le consumazioni, le pasticcerie idem; e poi gli inviti alle castagnate,
alla panisse e alla sfilate carnevalesche; la domenica i ragazzi avevano la
possibilità di ascoltare la messa in ruandese, e poi per qualcuno ripartì
seriamente anche la scuola.
A seguirli, un vero esercito di
volontari, capitanato da suo fratello Marco e da sua cognata Ombretta.
Solo ricordando quei mesi si viene
pervasi da un’emozione indescrivibile.
La nostra città si illuminò di
immenso, ma fu soprattutto lei, padre Minghetti, ad accendere quella luce che,
nel cuore di tutti quelli che c’erano (pur giovani, pur piccoli), ancora
lampeggia.
Oggi, Padre, lei se n’è andato.
Mi piace pensarla trascinato in un
cielo chagalliano da uno degli aquiloni che incantavano i suoi ragazzi.
Oggi molti di loro sono adulti, tanti
sono già padri.
E sono certo che oggi, in Ruanda, c’è
stata una sorta di lutto nazionale, non proclamato ma sentito, in centinaia di
case.
Perché se quelle case ci sono, se oggi
sono abitate, è perché un sacerdote venuto dal rione povero Belvedere (quello
in cui recitò la sua prima messa, e siamo grati a Flavio Ardissone di avercelo
ricordato) decise di combattere una battaglia che sembrava impossibile contro
la follia della più folle delle guerre.
Vincendola.
Perché al suo fianco aveva una città,
la nostra città.
Riposi in pace, padre.
Nessuno lo merita più di lei.